Questo è un racconto che ho scritto per il mio “Bestiario Geografico Portoghese”, e che ho presentato come compito per il seminario di scrittura creativa del Master in Comunicazione Gastronomica che sto seguendo, in particolare per le lezioni di scrittura con l’autrice Lena Yau.
L'Unica Grande Gallina del Portogallo fa parte di una serie di racconti semiseri ispirati alla geografia, alle tradizioni, e alla gastronomia portoghese, una serie di fiabe per adulti, geograficamente alimentate in Portogallo, e nate da giochi di parole, da piatti pieni, da confusioni culturali-linguistiche e dalla semplice voglia di intrattenere.
L’unico filo conduttore di questi racconti è l’amore che lega l’autrice al suo Portogallo, alla continua ricerca di sapori autentici, e le nottate spese a caccia di ispirazione nelle cucine portoghesi.
Approfittatene con cautela: potreste anche voi innamorarvi del Portogallo, e potreste volervi trasferire.
Al bancone, in taverna o al ristorante, c’è sempre posto per chi crede nelle parole dei libri. Lo ha detto anche il grande Pessoa.
L'Unica Grande Gallina del Portogallo
La tradizione prescrive che in Portogallo la maggior parte dei dolci sia a base di uova.
Questa tradizione risale ai tempi antichi in cui campagne e città pullulavano di conventi, nei quali schiere di monache inamidavano tonnellate di paramenti sacri ed altri capi, con il bianco d’uovo.
Una volta compiuto il compito di inamidare le vesti, però, rimanevano montagne gialle e traballanti di tuorli d’uovo.
Tantissimi. Inutilizzati. Deperibili.
E che turoli! Free-range e biologici, ovviamente. Doveva trattarsi a quei tempi di galline ruspanti e selvatiche, con gambe poderose, alimentate con prodotti naturali e libere di scorrazzare tra chiostri e giardini dei semplici.
“Sarebbe stato uno spreco non utilizzarle a fini di bene” pensò un giorno uno dei monaci crapuloni del convento di Alcobaça, vestito di nuovo, osservando il monte giallo oro dei tuorli che galleggiava in un calderone della sua enorme cucina.
Ed ecco cosi sorgere dalle cavernose profondità di uno spazio culinario che rassomiglia più ad una cattedrale (profana del gusto) che ad un luogo di lavoro, una tradizione dolciario-culinaria che stabili una volta per tutte la creazione di dolcissimi pasticcini composti prevalentemente da rossi d’uovo (in accompagnamento o no con i bianchi) e zucchero, l’altro immaginifico tesoro che arrivava a galeoni dal nuovo mondo.
Che tempi!
Ma al viaggiatore attento non sfuggirà tuttavia una particolarità delle pure estesissime campagne portoghesi: l’assenza endemica di galline.
Non se ne trovano nelle vastissime pianure arse dal sole dell’Alentejo, terra di latifondi agricoli e di cavalli dal portamento altero. Non se ne trovano nei monti silvestri delle valli boscose di Beira Alta. Non se ne trovano nelle coste battute dal vento dell’Algarve. Non se ne trovano sulle rive del fresco Douro all’ombra delle vigne più belle del mondo. Non c’e una gallina in vista, nemmeno a cercarla bene, in tutto il Portogallo.
Provateci.
Si possono passare interi paesini di case bianche e profili gialli, con le tegole scure di cotto e l’acciottolato davanti, senza vedere un solo esemplare di questi pennuti.
Certo, in quanto a popolazione aviaria non ci si può lamentare. Ci sono moltissime cicogne, lassù nei loro alti nidi appollaiati in cima ai campanili e ai pali della luce. Ci sono infinite rondini che riempiono i cieli delle città delle loro grida allegre.
Ma di galline, nemmeno l’ombra.
E pensare che negli altri paesi d’Europa, quando si va di villaggio in villaggio, i pollai sono una vista molto comune. Sono ormai meno comuni, per ovvie ragioni di circolazione stradale, le galline libere di circolare per strada. Ma non sono una visione cosi fuori dal comune da causare, nei viaggiatori casuali un rallentamento dei loro veicoli motorizzati e conseguenti sfortunati accidenti (e qualche frittata).
Ma non in Portogallo.
Non ci sono galline.
Non a Lisbona, ma questo è normale: non ci sono galline a zonzo nemmeno nelle altre capitali europee, se non in qualche periferia di capanne agresti e binari dimenticati di linee ferroviarie dismesse.
Lisbona, tuttavia, è cosi sprovvista di galline da far sorgere al viaggiatore il dubbio sulla provenienza delle innumerevoli uova che pure affollano i piatti tipici e dolci tradizionali.
Le vetrine trasbordanti zucchero e giallo sono dunque un’incognita.
Mentre la maggior parte dei turisti si accontenta di assaggiare, e in quantità, i deliziosi pasticcini e le altre delizie confezionate con le uova, i viaggiatori più attenti si domanderanno effettivamente da dove venga tutto quel ben di dio gallinesco: da dove arrivano queste sferiche delizie, base della cucina portoghese ed espressione massima della pasticceria tradizionale portoghese?
La risposta è semplice.
C’è una sola grande gallina in Portogallo.
Una, gigante. È enorme, piumata, maestosa.
È alloggiata nei dintorni di Alcobaça e del suo altrettanto gigantesco monastero. Sta lí, grande, quasi immobile, par che dorma ma invece depone centinaia, migliaia di uova.
Una cascata di sferiche bontà emerge dalle sue viscere ed un calore dorato dalla sua figura, il suono morbido delle uova che rotolano dolcemente sulle sue piume, prima di essere incanalate in morbidi scivoli che distribuiscono le sue uova in giro per il Paese.
Le sue uova raggiungono tutti gli angoli del Portogallo e sono la base della cucina tradizionale, e forniscono un enorme contributo all’autosostentamento di questo piccolissimo paese costiero.
Fin dai tempi antichi, il Portogallo ha dovuto dimostrare di essere in grado di bastare a se stesso, specialmente quando si trattava di rimanere fuori dalla portata delle fauci fameliche del loro ingombrante vicino, il regno di Spagna dall’insaziabile fame di tortillas.
Ovviamente, i Portoghesi sanno dell’Unica Grande Gallina di Alcobaça.
Non ne parlano con i vicini per ovvi motivi strategici, ma se un turista non si presenta come spagnolo, la maggior parte degli abitanti di questo villaggio dominato dall’ingombrante monastero (gallina annessa) è molto contenta di mostrare il pennuto impegnato a soddisfare i bisogni di dolci alle uova di questo bizzarro paese.
Nella storia litigarella del confine più occidentale d’Europa ci fu un solo momento di reale tensione, racconta il guardiano dell’ Unica Grande Gallina.
Accadde infatti che un giorno, intenzionati ad acquisire ancora più costa atlantica, un drappello di imprenditori spagnoli parti alla conquista del Portogallo.
Armati non di fucili e spingarde, essi si mossero in modo accorto, comprando attraverso una serie di compagnie come scatole cinesi una stretta fascia di terra a ridosso del confine tra il Portogallo e la Spagna.
Grande fu poi la sorpresa di portoghesi e spagnoli quando videro spuntare su tali terreni una serie di fattorie agricole, che poco alla volta si fusero in un’unica, lunghissima fattoria che occupava il confine intero.
Il dramma colse i portoghesi confinanti quando realizzarono, a qualche settimana da Pasqua, che la lunghissima fattoria di confine era stata trasformata in un lunghissimo pollaio, lievemente inclinato verso di loro, e riempito di simpatiche galline che, complice il bel tempo e la novità, iniziarono a sfornare uova in quantità, mettendo pertanto in ginocchio la produzione portoghese, una volta che il Portogallo venne - letteralmente - inondato di uova, che rotolavano oltreconfine senza posa.
Pensa che ti ripensa, i portoghesi rappresentanti di tutte le regioni si ritrovarono ad Alcobaça, con il proposito di discutere il futuro dell’Unica Grande Gallina.
Politici e carismatici, personaggi televisivi e sportivi, nutrizionisti e sacerdoti, tutti avevano qualcosa da dire, ma nessuno aveva una soluzione da trovare.
Vennero invocati il trattato de Tordesillas, l’Unione Europea, Salazar e il WWF, tutto senza riuscire a trovare un modo di arginare la valanga di uova che stava ricoprendo il Portogallo.
Le uova avevano infatti iniziato ad arrivare alle coste portoghesi, le spiagge ne erano invase, i gabbiani, confusi, starnazzavano senza fermarsi e gli abitanti di Lisbona affollavano il Pronto Soccorso dopo cadute rovinose e altrettante frittate.
Fu un piccolo ristoratore di una taverna poco nota dell’Alfama che ebbe l’idea salvifica che pose fine a questo assedio ovale.
Dopo decenni, introdusse nella sua cucina un piatto spagnolo: la paella.
I vicini, disgustati, gli levarono il saluto, alcuni persino smisero di passare davanti alla sua porta.
Ma quel piccolo gesto di sfida fu sufficiente: gli Spagnoli, spaventati, tolsero l’assedio, inondando Lisbona di turisti attratti dal riso (che da loro abbondavano), invece che di uova.
Pace fu fatta.