Cosa c'é in un nome (e anche: parliamo di lattine)
Il blog ha cambiato nome, ma non ve ne siete accorti
Oltre il baccalá ha cambiato nome.
Anzi, ha cambiato didascalia e con questa, ha cambiato (un po’) la sua natura: ora si chiama “vita gastronomica in Portogallo”, che mi sembra abbia piú senso data la mia repulsione crescente per il concetto di “guida”.
Quando il blog era nato, avevo grandissime ambizioni: lo avrei fatto diventare un punto di riferimento per la gastronomia lusitana. Col tempo, mi sono ridimensionata: i turisti vengono qui a mangiare sardine e pastel de nata, poco importa il resto nelle loro mini-vacanze targate Ryanair, mordi e fuggi.
Tabucchi é morto e con lui una certa idea di viaggio - lento, misurato, che si infila nelle viuzze a caso alla ricerca di un sogno. Il sogno ahimé é stato travolto da tuktuk con fenicotteri di plastica sul tetto, pastel de nata al gusto cioccolato Dubai, e una generale indifferenza dei locali, sia nativi che importati, per quello che conta veramente. Si vuole fatturare, come a Milano. Manca solo Big Mamma Group, ma ci siamo quasi, anche come prezzi.
Per cui ho deciso di cambiare io, strada.
Perché raccontarvi con cura il cibo cui voi dovreste prestare attenzione, se tanto a nessuno importa nulla? Forse é meglio riprendere a scrivere come voglio io, un po’ a caso, per chi mi legge (ciao, mamma).
Non é un diario gastronomico (che scrivo in inglese qui, se vi interessa), é piú un diario con anche del cibo.
Un po’ come la mia vita, che é una vita con del cibo, come dice la mia amica Elena che é probabilmente la persona gastronomica con cui piú mi piace chiacchierare - le nostre chat potrebbero essere libri dell’assurdo, tra Chef provoloni, piatti dimenticati, un lavoro che la porta a girare su e giú per l’Italia che ha scelto come casa e che ama piú di molti che in Italia ci sono invece nati. Ha anche piú proprietá di linguaggio della maggior parte dei gastronomi, anche se, come me, usa il trucchetto di tradurre in inglese un certo critico gatsronomico dalla parlata inutilmente arzigigolata (ciao, mitico, ci piaci lo stesso, anche se ti prendiamo in giro nella nostra terribile chat).
C’é del cibo, certo, e come non potrebbe esserci?
Anche se ora che ho installato la InstaPot a casa, e che ho sempre un cubetto di massala congelato in freezer, la mia propensione ad andare fuori a pranzo sta scemando notevolmente. Insegna a pescare, dicono, e pescherai tutta la vita. Qui, parlo di ceci e fagioli, ma é uguale: la liberazione dalla scatoletta é stata uno dei momenti felici di questo inizio estate troppo caldo, anche qui sull’Atlantico.
Eh, la scatoletta.
Per i portghesi la scatoletta é un qualcosa di cui vergognarsi.
Cibo da poveri. Nonostante la loro eccellente industria conserviera, rimane nel portoghese la sensazione che aprire e servire una scatoletta sia una cosa da non fare agli ospiti, un’abitudine da poveracci.
Poco importa che i turisti fiocchino nei negozi deliranti del centro a comprare lattine di sardine e tonno.
Poco importa che i loro vicini spagnoli vendano lattine a peso d’oro.
Poco importa che il caviale sia in scatola pure lui, caviale che peraltro sembra non mancare mai in nessun ristorante ce´he vuole attrarre la clientela internazionale e spendacciona di passagio, sembra capace di fare a meno (che noia).
E infine, poco importa che la Compal, ditta di trasformati vegetali, stia martellando i canali televisivi con la pubblicitá ai suoi preparati vegani giá in scatola: curry di ceci, chili di fagioli e ragú di lenticchie.
Penso alle nostre e nostrane scatolette Rio Mare, dalle Insalatissime ai pasti pronti, e penso quanto sia stato sdoganato a tal punto da costringere nutrizionisti come Sara Olivieri di SNUT a creare contenuti specifici con alternative a sta benedettissima scatoletta di tonno sempiterna come salvapranzo. Che va bene una volta, ma sempre insomma no.
Il ristorante libanese vicino casa non delude mai, se proprio fossi a corto di ceci o lenticchie, ed anche se dopo le guerre recenti ne sono spuntati molti, di ristoranti libanesi a Lisbona, rimane per me un punto fermo. Falafel, fattush, patate piccanti e (quando in stagione) fagiolini verdi.
Hanno aperto almeno quattro nuovi ristoranti nelle due strade piú in voga per andare al ristorante (São Paulo e Boavista) e francamente non mi sono interessata neanche di scoprire cosa sono: dalla grafica tutta uguale, sono mais do mesmo, come dicono qui.
Due importanti giornalisti hanno lasciato la Time Out (che non é solo il mercatone acchiappabischeri a Cais do Sodré, ma anche un magazine): Claudia e Alfredo (pseudonimo). Se ne va un bel pezzo di critica gastronomica - sia velata, quella di Claudia, sempre attenta ai dettagli, una specie di Anna Prandoni locale, e Alfredo, il Visintin qui del posto. Peccato.
Rimangono gli influencer, dio ce ne liberi, e giovani giornalisti sottopagati che vanno solo su invito, e vengono infilati in “press trips” senza senso, a produrre in serie “contenuti” che diventano obsoleti in cinque minuti, irriconoscibili gli uni dagli altri. Ci sono delle nuobe “guide” della cittá, come questa strana persona angolare, che usa un corpo non conforme (al ribasso) per pubblicizzare ristoranti (in cui non mangia, immagino io). Sempre in auge anche il rossetto rosso di un’altra food influencer, che si presta simpaticamente a creare contenuti piacevoli su richiesta.
Mi mancano un po’ i “foodies” della vecchia guardia, devo ammetterlo.
Quelli che invece di cercare di emergere individualmente ancora credevano in una specie di spirito collettivo e si trovavavno dal vivo, davvero, regolarmente attorno ad un tavolo - avevano perfino un club informale di persone che mangiavano nelle “tascas”. Ma le tascas stanno morendo, purtroppo, e questi “foodies” della prima era si avvicinano ai quarant’anni, stritolati dalle spese e dai salari bassi, e da una cittá che in dieci anni si é gentrificata, diventando il paradiso del digital nomad nord europeo e francese, e l’inferno del giovane locale. Specie con figli e famiglia.
Mi manca la loro ingenuitá, il loro spirito poco critico ma molto entusiasta - e non in contraccambio di soldi per i reels, né forse in contraccambio di una cena. Questi andavano fuori a mangiare perché volevano creare legami sociali con le cucine, con la sala, con la gente.
Ora quelli che li hanno sostituiti ci vogliono fare i reels.
Beautifully written. It’s not just your mum who enjoys reading you :)
Proprio così. Qualsiasi cosa ancora meriti di essere frequentato si trova fuori dal circuito turístico, in Liguria come in Portogallo. Lontano dalle città e dalla costa e nelle tascas sperdute, le poche che resistono, si vive gastronomia e antropologia reale. Il resto è rumore. Fastidioso.