La piaga dei nomadi digitali, degli addii al nubilato e celibato, dei "pub crawl tour", dei non-luoghi con non-cibi
Non é tutto rose e fiori a Lisbona,
Avvertenza. é un post un po’ lungo!
Vi riporto anche un post che ho scritto nel mio altro blog, e per facilitarvi la lettura ve lo traduco dall’inglese originale in italiano.
Se volete vedere dove scrivo, oltre che qui:
Intanto, buona lettura!
Nel mio quartiere a Lisbona c’è una deliziosa piazzetta con un chafariz (una fontana storica), ed un bell’albero frondoso sul cui tronco i vicini hanno cucito una coperta fatta all’uncinetto. Il Largo é davvero bello e forse uno tra i più pittoreschi di Lisbona, ed ospita vari ristoranti, un paio di negozietti, e tre panchine.
Un giorno di sole, armata di computer, ho deciso di fare una pausa caffè e sono scesa al bar locale, un grazioso spazio con dei tavolini nel Largo. Purtroppo, la cameriera sbrigativamente ci ha informati che nella esplanada i computer non erano benvenuti, “ordini superiori”.
Che peccato.
Ci hanno spiegato per che dentro il locale avremmo potuto restare, con i laptop. E dentro ci sono anche le prese di corrente.
Ma noi volevamo il sole.
Abbiamo levato le tende, ed abbiamo optato per un caffè a casa. Un rito: ho macinato il caffè, e poi ho bollito l’acqua per fare un bel caffè filtrato. Leggero, gustoso, e a costo (quasi) zero.
Si capisce.
Tra turisti e nomadi digitali, expats e sfaccendati delle criptovalute (prima) e delle AI (ora), i residenti sono stufi.
Ad Ajitama, famoso ristorante di ramen che ha appena raddoppiato l’offerta ed ha aperto un nuovo spazio in Rua do Alecrim (Chiado) che affianca quella di Rua Conde Redondo (Picoas), ha creato una soluzione per riempire i suoi spazi di avventori nelle “ore morte” tra pranzo e cena: ha creato un concetto di caffè giapponese, con caffè di specialità, dolcetti di una pasticceria locale, e si é dichiarato marcatamente laptop friendly.
Non mi sembra (empiricamente parlando) che stia andando benissimo: i dolcetti sono costosi e tra i locals che non se li possono permettere e i nomadi digitali che sembrano più interessati a luoghi in cui incontrano altri nomadi, temo per la durata di questo esperimento.
Una via di mezzo viene praticata dal flagship coffee store di Delta Coffee, in Avenida Liberdade. Il bello spazio é laptop friendly tutto il giorno (ma non ha le prese di corrente), meno che nelle ore di pranzo in cui viene gentilmente chiesto di lasciare i tavoli chi vuol mangiare (ci sono sempre dei divanetti disponibili).
Si vedono ovunque persone al laptop che lavorano in bar, caffetterie, ristoranti e hotel.
Oggigiorno il lavoro é anche ibrido, se non completamente remoto. Specie per i nomadi digitali che ancora affollano il Portogallo.
Naturale che vi siano ovunque persone con un laptop, o uno smartphone.
Ma non sono questi avventori, quelli che stanno degradando rapidamente Lisbona e la stanno trasformando in una Disneyland per turisti boccaloni.
I peggiori turisti che si vedono in città sono sicuramente le comitive in cerca di divertimento a poco prezzo ed alcool a fiumi dei pub crawl e degli addii al celibato e nubilato.
Sono loro che imbrattano le strade con chiazze di vomito, lasciano bicchieri ovunque, ed urinano in strada. Completamente privi di educazione e rispetto, auguro loro scivolate lungo le strade rese impraticabili dai loro stessi resti di sangria maldigerita.
I pub crawl tours stanno istituzionalizzando una pratica oscena di giri per la città alla ricerca di alcool. Un peccato che a fine tour non vengano direttamente tutti buttati nel Tago, e chi sopravvive sopravvive.
Non amo questo turismo povero (e non mi riferisco al loro potere monetario, visto che la maggioranza di loro viene da paesi come Olanda e Inghilterra dove il reddito pro capite è molto più alto di qui).
È svilente per una città come Lisbona, ma anche Firenze, Barcellona vedersi invasa da nugoli di persone che ritengono un uso intelligente del loro tempo stare per ore ed ore sotto sole e pioggia in attesa di un giro sul tram giallo 28.
È degradante per chi vive in queste città letteralmente invase da eserciti di turisti ignoranti, che poco si interessano di cultura, e che passano come zombie tra un negozio (spesso di una catena come Zara che hanno pure a casa loro) e un ristorante dove possono mangiare pesce d’allevamento, oppure pancakes e avocado toast in locali tutti uguali, come ce ne sono da Berlino a Cape Town.
Il centro di Lisbona, ormai quasi privo di residenti, é un susseguirsi di ciarpame e cianfrusaglie.
Qui e lí iniziano a spuntare oasi di resistenza all’imbecillità umana, in forma di negozi e ristoranti autentici.
Ma il rumore di fondo delle trappole per turisti e dei turisti boccaloni che ci cascano é ancora troppo forte.
Perché siamo diventati cosí?
Se penso a Byron e Goethe, anche loro facevano i turisti. Anzi, forse no.
Forse loro erano invece viaggiatori.
Viaggiavano per l’Europa e si intrattenevano a scoprire culture diverse. Stiamo diventando collettivamente più stupidi, o era forse meglio quando solo persone dall’educazione superiore potevano permettersi di muoversi?
La mia inquietudine viene dal fatto che se ad oggi abbiamo nelle mani letteralmente lo scibile, e possiamo passare il tempo a imparare cose nuove con il tocco di un dito sullo smartphone, perché c’é tanta stupidità in giro?
Perché i turisti boccaloni, che si muovono in greggi come pecoroni completamente avulsi dalla realtà (potrebbero essere a Lisbona o a Barcellona, cercherebbero le stesse cose da fare) sono in aumento invece che in declino?
Ha forse ragione il film Idiocracy di Judge e Cohen, The Time Machine di H.G Wells, e Brave New World di Huxley?
BONUS READ
Se volete leggere una tirata lunghissima sui non-luoghi ispirata a Marc Augé, venerdì scorso é uscito in inglese Culinary Ramblings. Potete registrarvi al blog, ogni settimana esce una riflessione gastronomica, culturale, filosofica o culinaria.
Un estratto per i lettori di queso blog, tradotto da me:
La foto sopra è stata scattata una soleggiata mattina estiva nel centro storico di Lisbona. È l'immagine di una coda piccola ma in costante crescita, in attesa del proprio turno sotto il sole cocente.
Stanno aspettando un tavolo libero da Amelia, un negozio locale di discreto successo che offre le stesse cose di qualsiasi Starbucks e ha una dozzina di punti vendita identici ovunque.
Amelia e gli altri cloni, infinitamente simili tra loro, potrebbero trovarsi in qualsiasi città del mondo. Si dà il caso che si trovino a Lisbona e avevo questo campione a portata di mano, quindi abbiate pazienza.
Attenzione: questi fenomeni non sono squisitamente portoghesi: questa malattia si è diffusa ovunque ci siano persone, turismo o (soprattutto) una combinazione di entrambi.
Vai in qualsiasi città europea - e forse anche mondiale, e ritroverai gli stessi concetti, ripetuti all'infinito.
A Lisbona, ad esempio, oltre ad Amelia, Nicolau e Basilio (ciascuno clone dell'altro nella stessa azienda), abbiamo anche gli indistinguibili The Folk’s, Copenhagen Coffee, Food Bio, Simpli Coffee and Kitchen, Fauna & Flora, Liberty Café, Dear Breakfast, Seventh Brunch...potrei continuare.
Ne ho di più: solo la scorsa settimana, intorno alla centralissima e popolare Rua da Madalena a Lisbona in un raggio di circa 250 metri, ho contato un Paleio Café di recente apertura, che serve cibo simile alla colazione tutto il giorno come quelli sopra menzionati, Orquidea Café anche lui con la colazione tutto il giorno, un altro Dear Breakfast…, un altro The Folk’s, un Basilio che è cugino della suddetta Amelia, un altro Food Store, ONinho che serve il brunch... e sicuramente me ne sono persa qualcun altro perché loro sono proprio tanti.
Ancora una volta, potrei continuare all'infinito.
È come in Matrix (il film), sono tutte copie dell'agente Smith.
Non-luoghi per pancake, latte macchiato e toast con avocado
Il defunto filosofo Marc Augé, morto quest’estate, ha coniato il termine per luoghi generici come depositi di autobus, stazioni ferroviarie e aeroporti che, per quanto elaborati e grandiosi, non conferiscono la sensazione del luogo.
Li ha definiti non-luoghi.
Trovo che questi ristoranti di pancakes per turisti si inquadrano perfettamente nella categoria dei non-luoghi.
C’è un aspetto esperienziale e gastronomico in questo tema che voglio esplorare anche con voi.
Questi ristoranti, questi non-luoghi, appartengono tutti allo stesso paradigma, attraendo i Millennial più giovani, la Generazione Z e ancor di più le generazioni più giovani.
Il cibo è riconoscibile e confortante, dai colori rosa e verdi, consistenze morbide abbinate a quelle croccanti (granola, brioche).
Prevalenza del sapore dolce e salato.
Banditi da questi “concetti”: il cibo non instagrammabile, il cibo “alieno” o troppo esotico e, assolutamente e ovviamente, i sapori amari, aspri e acidi.
Cosa sono per me questi piatti?
La morte completa e oscena del gusto, della personalità, della stagionalità e della gastronomia.
In una celebre intervista al fondatore del Movimento Slow Food, Augé parlò di McDonald’s e del gusto, o meglio, del non gusto e dei non-cibi e a distanza di anni possiamo dire: aveva ragione, e stiamo perdendo la battaglia.
I cibi preparati e serviti in questi pancake-non-luoghi sono profondamente aculturali. Non-cibi, se vogliamo.
Negano e appiattiscono aggressivamente le specificità, lavorano contro la conservazione culturale e gastronomica in modo molto più intenso ed efficace di McDonalds e Starbucks.
Perché lo fanno sventolando la bandiera del “sano” (cibo), “sostenibile” (caffè) e “amichevole” (servizio).
A me sembrano i palloncini di IT.
Se Augé definisce il fine dining internazionale come transculturale, dove i paradigmi del fine dining sono declinati nelle specificità regionali e perfino locali, questi tipi di alimenti sono al tempo stesso dei non-alimenti, nonché una minaccia a ciò che è il cibo gastronomico.
C’è un’intera generazione in arrivo, nata da genitori Gen X e Millennial, il cui orizzonte gastronomico si sta restringendo.
Se Augé definisce il fine dining internazionale come transculturale, dove i paradigmi del fine dining sono declinati nelle specificità regionali e perfino locali, questi tipi di alimenti sono al tempo stesso dei non-alimenti, nonché una minaccia a ciò che è il cibo gastronomico.
C’è un’intera generazione in arrivo, nata da genitori Gen X e Millennial, il cui orizzonte gastronomico si sta restringendo.
Le loro opzioni sono infinite, ma in realtà quello che loro scelgono è tutto uguale. Bubble tea coreano, cappuccini dolci, pancake, waffles, poke bowl…
La verità è che questi non-luoghi si presentano come alternativi (vegan-friendly, locali, qualunque cosa sia di moda) ma in realtà sono la rappresentazione di un conformismo sistemico, tipico di una generazione che non è cresciuta fuori dalle insicurezze del mondo anni dell'adolescenza.
E allora?
Se ciò che tutti cercano è lo stesso, il mercato crescerà in quella direzione. Sushi con roll al salmone, pancake rosa alla barbabietola, toast con avocado con uova in camicia, albumi e bubble tea.
Tutto e altro di questo stesso genere, ancora ed ancora ed ancora.
Tutto è ovunque, non solo tutto in una volta ma anche SEMPRE.
«Il senso del gourmet del primo mondo si è abituato a vedere moltiplicarsi i franchising nei ristoranti, normalizzando lo scambio delle trattorie tradizionali con un magma di multinazionali. Ma c’è un altro fenomeno latente nel nostro spazio urbano che è ancora più preoccupante: quello dei ristoranti che, senza essere in franchising, sembrano tale”, dice Laksmi Aguirre su El Diario.
E dunque ci sono infiniti posti a Lisbona che sembrano uguali, anche se sono (nelle loro stesse parole) concetti originali, ma finiscono per sembrare dei franchising.
Non-franchising della stessa idea attualmente esistenti a Lisbona:
Marquise da Mobler, Monka Bakery, Shaka Coffee, Tact, Wellwell, Neighborhood, Hello Kristof, Buna, Jac, Heim, Stanislav, Manifest, Hygge, Dedes, The Mill, Zenith, Seagull Method, Thank you Mama, Bowls bar, Cotidiano, Janis, Wish, Ela Canela, Comoba, Le brunch by dri, Maria Limao, Augusto, e cost via, ad libitum.
Hanno tutti lo stesso aspetto.
Di più: sembrano tutti uguali in qualsiasi Amsterdam, Parigi, Istanbul, ovunque si trovino posti che servono prodotti non alimentari.
Si dice che nell'antichità uno scoiattolo potesse andare dal Volga all'Atlantico senza toccare terra, qui possiamo dire che oggi un cliente può andare dalla Russia al Portogallo semplicemente mangiando gli stessi non-food, pensando comunque che sia mangiare bene e locale.
E sano, vega/veg (o ricco di proteine) e quant'altro.
Questi non-luoghi si sono posizionati in modo aggressivo CONTRO Starbucks e McDonald’s, aumentando esponenzialmente i loro prezzi per servire gli stessi prodotti non alimentari.
Sono il NUOVO comfort food, il cibo riconoscibile e il cibo casalingo.
Dolce, salato, rosa, tiepido, spumoso, cremoso, croccante.
Waffle, pancake, sciroppi, avocado, brioche, muesli, chai latte o qualunque latte.
La colazione tutto il giorno come paradigma.
L’infantilizzazione del gusto è il triste risultato.
Per una serie di generazioni sempre più disinteressate al resto della gastronomia. Banditi, ovviamente, gli alimenti che hanno viscido, molle, amaro, acido, acido.
Per questi clienti vale la pena fare la fila al sole dopo un volo low cost impacchettati come sardine per più di 3 ore per mangiare un non-cibo in un non-luogo, uguale a quello che hanno nel loro quartiere a Berlino, Zurigo o Milano.
Anche se il non-cibo che servono è lo stesso, si sarebbe potuto mangiare a casa in un posto altrettanto rosato, verdolino e fintamente “green”, a casa dietro l'angolo.
Aguirre aggiunge: “Non credo che manchi nel cliente una formazione alberghiera ma piuttosto una formazione gastronomica. E per fare questo bisogna prima avere interesse e mangiare bene e, soprattutto, con senso, che sia una meta per chi viaggia o va a cena fuori nella propria città”.
Aguirre usa "viaggiare", non essere turisti.
Per i parolieri come noi, le parole contano.
Il colpevole, ovviamente, è il turismo (di massa).
Il turismo come lo conosciamo oggi è il risultato diretto della realtà distorta in cui viviamo, dove alcuni ricchi sono stati ispirati ad aspirare a viaggiare non come mezzo di illuminazione, ma piuttosto come un modo per mettersi in mostra, e alla fine , consumando.
Il consumismo, guidato dal tardo capitalismo contorto, sta consumando noi e il nostro ambiente con emissioni di gas, inquinamento e oggetti usa e getta.
Il foodismo sta uccidendo anche le nostre città, cosa che mi infastidisce di più.
El Pais ha recentemente pubblicato un articolo molto allarmante che mi è piaciuto molto, anche se allo stesso tempo mi ha inorridito.
“C’è un dirottamento del panorama alimentare. Le città prima vengono turistificate, poi vengono addobbate. Poi si gentrificano espellendo i vicini e, infine, diventano buongustai. Il buongustaio è un predatore dell'identità altrui” avverte nell'articolo José Berasaluce, coordinatore del master gastronomico dell'Università di Cadice, Masterñam.
Nell'articolo si fa riferimento al prof. Joshua Sbicca, professore di Sociologia alla Colorado State University, che nel suo articolo Food, gentrification and Urban Transformations rileva come “ci sono quartieri poveri e classe operaia che sono mutati fino a diventare oggetti di agognato desiderio di chi cerca mete cosmopolite dove vivere ricche esperienze culturali e gastronomiche in cui la cucina tradizionale del quartiere è scomparsa. È il caso dell'Eixample e della Ciutat Vella a Barcellona, delle zone di New Orleans e Marrakech, del quartiere Ruzafa a Valencia o del centro di Siviglia, luoghi in cui prodotti come avocado, pane bao e hummus sono tanto presenti quanto standardizzati. Il tradizionale non c'è né ce lo si aspetta, ma quando c'è è così esotico, così oggetto del desiderio, che viene utilizzato per renderlo più costoso. Il risultato è che hai un piatto pessimo e molto costoso”.
Quando il giornalista si è avvicinato a una coppia di turisti mentre mangiavano un pezzo di pesce fritto e due bottiglie di birra a un tavolo alto, hanno detto di essere rimasti entusiasti della loro scoperta casuale del Mercado: "È una meraviglia. Siamo buongustai, cerchiamo il tradizionale, ma costa sempre di più a causa dei turisti”, dice uno di loro turisti anch’essi, senza (osserva El País) notare la paradossale contraddizione.
Il turismo di massa, combinato con l’eccessivo sfruttamento dei combustibili fossili, ucciderà la nostra civiltà.
C’è stato un breve, fugace momento nel 2020 in cui tutti insieme abbiamo creduto di poter cambiare le cose.
Era, ora lo vediamo, un'illusione.
“Ricordiamo lo slogan che diceva "Non torneremo alla normalità perché il problema era la normalità", era un bel testo, intelligente e ben fatto. Non ha funzionato. Non siamo semplicemente tornati alla normalità: l'abbiamo superata, l'abbiamo accelerata, come per dimenticare quei due anni, come per punirci anche solo di aver pensato di rallentare. Abbiamo immaginato un mondo sostenibile e ciò che troviamo è l'opposto di quel desiderio. L’estate appena trascorsa è stata segnata dal turismo di massa in Europa (e in Italia e nel Mediterraneo in particolare), la liberalizzazione dei terrazzi sui marciapiedi cittadini ha dato vita a una foodification che sta divorando lo spazio pubblico nelle città” scrive dolorosamente Rivista Studio .
In un mondo ideale i turisti rimarrebbero nelle zone turistiche: questo è ciò che accadeva fino a non molto tempo fa. Durante la mia permanenza a Roma, era inaudito che i turisti venissero condotti in massa nei luoghi tipici dei locali.
Mai visto un turista americano al quajaro, al Pigneto, nel 2007.
Già oggi…
Viaggiatore e turista sono concetti estremamente diversi e, a causa della generale mancanza di mezzi, la maggior parte delle persone in movimento oggigiorno sono migranti o turisti.
E lascia che ve lo dica, rispetto molto di più chi si sposta per necessità (intellettuale o vitale) rispetto a chi si sposta semplicemente in posti per un fine settimana alimentato da voli economici perché questo è ciò che va di moda adesso.
E credo fermamente che i turisti DOVREBBERO restare nelle loro zone turistiche.
Ci sono molti posti dove accogliere i turisti, senza cancellare completamente i pochi spazi rimasti dove rimane l'autenticità. Di più: come abbiamo discusso, ci sono moltissimi posti nuovi e imminenti pensati appositamente per i turisti.
Il turista è un po’ come una pecora: ha bisogno di guida perché gli mancano altri mezzi (linguistici, comunicativi, intellettuali) per comprendere un luogo.
Senza questa guida rimarrebbero nei non-luoghi pensati per loro.
Ciao Sara, molto interessante questa newsletter, e soprattutto le riflessioni sul non-cibo e sull'infantilizzazione del gusto. Ti segnalo quest'intervista a Sarah Gainsforth, che si occupa di turismo e crisi abitativa, che secondo me aggiunge qualche prospettiva interessante: https://www.youtube.com/watch?v=j80H2IgDjoQ